Almeno cinque partite pagate fior di quattrini a giocatori corrotti, disposti a mettersi da parte per far vincere il Catania e salvarlo dal baratro della retrocessione.
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A sentire la notizia così, qualcuno potrebbe pensare che ci sia del patriottismo esasperato nelle azioni (scellerate, secondo gli inquirenti) che hanno portato ai domiciliari il Presidente Pulvirenti, l’amministratore delegato Cosentino, l’ex direttore sportivo Daniele Delli Carri ed altre quattro persone. Ma lo scandalo che ha distrutto definitivamente la traballante credibilità del calcio italiano si fonda prevalentemente sul denaro: quello speso e quello guadagnato, con il vecchio e collaudato metodo delle scommesse sportive. La Procura di Catania ha ascoltato per mesi (da marzo a ieri) i cellulari del protagonisti di questa brutta vicenda: ha tradotto le parole in codice che scandivano accordi e i inciuci tra agenti Fifa, pregiudicati e agenti di scommesse online.
Il risultato è agghiacciante: ci sono giocatori venduti che incassano diecimila euro a incontro per fare i rammolliti; c’è un Catania che vince una partita dopo l’altra e si aggrappa alla serie B. C’è una rete di scommettitori “veggenti” che punta cifre importanti con la precisione di Nostradamus, tanto da mettere in allarme i sistemi centralizzati. Ma la di sopra di tutto c’è la ferita inferta a migliaia di tifosi che credevano nella propria squadra, umiliati dall’ennesima sberla in piena faccia. Perché il calcio italiano ormai è solo un grande santuario del profitto: ha i suoi riti e i suoi sacerdoti. E, ovviamente, ha un unico dio.