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Da anni seguo con interesse la storia del testimone di Giustizia Ignazio Cutrò: un imprenditore edile agrigentino che si è ribellato al racket; ha collaborato con la magistratura e per questo è stato costretto a chiudere la sua attività nel 2015, accumulando debiti con alcune banche e con lo Stato proprio a causa dei ricatti mafiosi a cui non si è piegato.

E qui viene il dato angosciante. Già, perché anche se questo aspetto è stato accertato da alcune perizie realizzate su incarico del Viminale (ovvero che il fallimento dell’attività è diretta conseguenza delle denunce fatte da Cutrò), l’imprenditore attualmente deve restituire oltre 500mila euro al fisco e a due banche. È comprensibile dunque lo sfogo del testimone di giustizia che ieri ha dichiarato all’Ansa di essere pronto a darsi fuoco con la benzina.

In un Paese civile, non solo a parole, lo Stato dovrebbe farsi carico di questi debiti e le banche – che certamente non moriranno di fame per una azione di civiltà – potrebbero benissimo dimostrare sensibilità. Invece no: è tutto un rimpallo di promesse della Commissione Antimafia e di silenzi assordanti degli istituti di credito. In Italia, del resto, la carità si fa solo dopo le tragedie.

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